Prologo
Dicono che quando si è giunti alla fine, la vita scorra davanti come in un film. In realtà, a quelli a cui come me è dato il privilegio di comprendere la morte, ciò che torna in quel film sono solo spezzoni di un nastro confuso. Parti significative magari trascurate in vita o grandi obiettivi mai raggiunti. Magari fosse vero quello che si tramanda, perché avrei tanti sguardi che mi piacerebbe rivedere un’ultima volta ma che invece non rincontrerò più in questa vita.
Adesso che sono a terra guardo per la prima volta il cielo con occhi diversi e mi sembra l’azzurro più bello che io abbia mai visto. Avevo messo in conto di morire un giorno. Prima o poi doveva accadere e credo che questi siano il momento e il luogo giusto.
La mia vita è stata sin troppo lunga e non mi pento di averla vissuta. Ho conosciuto il freddo, la fame, le malattie e ho imparato a curare da solo le mie ferite. Ho visto anche orizzonti di fuoco e nuvole di uccelli disegnare grandi forme nel cielo. Per tutte le volte che ho maledetto il freddo, ho avuto un giorno in più per imparare ad amare la vita e l’ho fatto.
Ora avverto che il mio tempo è giunto alla fine e che è ora di andare altrove. Qualcuno verrà presto a indicarmi la strada. Ma, nel poco e affannoso respiro che mi resta, voglio raccontare per l’ultima volta quella parte della mia esistenza che da sola serve a giustificare tutto il resto.
Per dare un senso a questa storia dovrò parlarvi di un uomo. Dovrò dirvi le cose che ho capito di lui e di come gli eventi abbiano inciso sulla sua vita e su quella degli altri. Dovrò affrontare le sue contraddizioni e mostravi chi era e cosa è diventato. Tutto scorre come deve. Niente è per sempre e il “mai” è un concetto umano su cui Dio non ha davvero
riflettuto. Gli uomini usano parole prive di senso naturale come eternità, ma non hanno alcuna cognizione di ciò che è eterno e neanche se esiste sul serio l’eternità. Dunque, questa storia presto verrà dimenticata, ma prima che succeda vi racconterò di come in ogni essere vivano in compromesso il bianco e il nero e di quanto sia difficile distinguere il bene dal male. Ma vi parlerò anche di come ogni esistenza possa diventare inconsapevolmente
grande o infinitamente insignificante.
Questa è solo una parte della storia di Augusto D.B.
L’unica che valga la pena di essere raccontata.
Capitolo 1
A volte succedono cose che cambiano destini che sembrano già scritti.
Progetti di vita o semplici piani quotidiani subiscono le leggi naturali che governano l’universo e finiscono per deragliare o per essere dirottati verso altri equilibri. E le storie degli uomini, che in quelle leggi naturali si trovano intrappolati, cambiano.
Non ci sono mai sufficienti difese per arginare ciò che non viene contemplato.
Per quanto ci si sforzi, nulla può essere pianificato a nostro completo piacere. Può capitare di mettere in conto un imprevisto e provare a far scorrere il progetto come si desidera, ma si lascia sempre una parte di qualcosa esposta alla casualità degli eventi.
Augusto D.B. questo concetto lo aveva elaborato negli anni, dunque non amava programmare il futuro. Neanche quello prossimo. Questo non faceva di lui un uomo semplice. Tutt’altro. Forse un eccesso di riflessioni aveva escluso dalla sua vita ciò che riteneva superfluo o semplicemente privo di una utilità immediata. Come, ad esempio, la rinuncia ad accumulare in casa oggetti o abiti in disuso. Tutto finiva per un breve periodo in un ripostiglio per poi passare inevitabilmente nei sacchi della spazzatura. Ogni tanto, la domenica specialmente, decideva di sbarazzarsi di quello che nella sua casa e nella sua mente occupava spazio e allora riempiva enormi sacchi neri che poi avviava, verso sera, nei grandi bidoni gialli o verdi della strada.
In fondo è una metafora della vita… perlomeno della mia, pensava.
«Le cose passano prima in uno spazio di accumulo, come i pensieri; poi devono sparire o lo spazio che ne deriverà sarà sempre meno e diventerà più difficile trovare le cose. Come i pensieri… appunto. Se prima o poi non si riesce a ordinarli, tanto vale cancellare quelli inutili o dannosi.»
Lui sapeva perfettamente che ogni sconfitta lascia segni sul corpo e sulla mente. Segni che diventano cicatrici con le quali imparare a convivere, perciò aveva elaborato uno schema semplificativo che rimuoveva dai pensieri le cose o i fatti che avevano l’odore fungino delle macerie e, contemporaneamente, si dimenticava totalmente di ogni fatica fatta per ricostruire ciò che la vita gli sparigliava. Finiva quindi per lasciare libertà di analisi ai suoi ragionamenti, solo se questi erano focalizzati sulle situazioni attuali. Con il passare degli anni aveva selezionato anche le persone.
Gli amici veri li contava sulle punte delle dita e con il tempo diventava sempre più semplice farlo. Le donne entravano e uscivano dalla sua vita con la stessa facilità con la quale indossava le camicie. E benché le sue camicie fossero quasi tutte azzurre e le donne che sceglieva quasi tutte more, con la stessa disinvoltura cambiava le une e le altre perché come
amava ripetere: ogni camicia artigianale ha una piccola imperfezione che la rende unica, così come dentro ogni donna è nascosto un piccolo particolare che la rende non replicabile.
Quanto a queste, le donne, il fatto che non avesse rinunciato a una stabilità emotiva, lo attribuiva al bisogno di non crearsi complicazioni.
Questione di sopravvivenza, appunto. Ma non lo svelava, perché preferiva mostrare un lato grezzo e a tratti persino cinico e né i suoi modi spicciativi, né i suoi giudizi trancianti lasciavano intendere che non lo fosse.
Augusto D.B. di domande se ne faceva eccome. Per esempio, sul perché la sua presenza incutesse soggezione e a tratti persino timore. Ma risolveva tutto con un insieme di parole, perché quella della parola, prima ancora della presenza fisica che pure si notava, era sempre stata la sua cifra.
Lo sapeva e delle parole abusava spesso con cinismo, spingendosi spesso ben oltre il ragionevole; per esempio, quando decideva di chiudere una relazione o un rapporto umano. E pur respingendo le situazioni, queste si presentavano pressoché identiche a cadenza ripetuta.
«Tu hai delle responsabilità in questo, Augusto… lasci sempre una porta aperta. Sei incapace di azzerare le cose. Sai solo distruggere le persone, ma non le uccidi mai del tutto. Le lasci agonizzanti nella speranza»
diceva Sabrina, quando lo vedeva accartocciare le cose della vita.
Sabrina era una sua amica… una delle dita contate per mettere in fila le amicizie. Lui la considerava una specie di grillo parlante a cui ogni tanto ci stava lanciare lo zoccolo di legno, così come Enrica, che lo inchiodava sui fatti assai più di quanto non fosse capace lui. Donne appunto… perché a differenza degli uomini, certe analisi le donne sono capaci di farle
anche in maniera cruda.
Però in fondo era vero. Lui era incapace di chiudere le porte, tranne forse quelle che riguardavano le sue scelte e la sua vita. Come molti suoi coetanei aveva alle spalle un matrimonio fallito dal quale non aveva salvato che un pacco di foto, un orribile servizio di piatti e una vecchia TV che non accendeva quasi mai. Dunque, pensava che di bastare a se stesso. Per le cose di casa aveva una governante, scelta tra tante che si erano proposte,
perché a prima vista gli era sembrata a prova di ogni tentazione e perché negli occhi piccoli e chiari, ci aveva letto più del bisogno, la sicurezza di sapere da che parte prendere la casa.
In realtà assumendo Rodica, aveva di fatto contratto regolare rapporto indeterminato, con qualcosa di più simile a una suocera che a una governante…
Rodica, infatti, si impicciava con eguale disinvoltura sia nelle sue camicie azzurre, sia nelle sue questioni personali. Spesso procurandogli irritazione, ma talvolta certe intromissioni gli ricordavano che esistono componenti umane dalle quali è sbagliato prescindere. Infatti, alla donna voleva un gran bene così come lei ne voleva a lui, malgrado le furiose litigate per questioni legate allo stile di vita di Augusto. Rodica avrebbe voluto vederlo “sistemato”, il che voleva dire con una donna stabile al fianco. Non tanto per eliminare qualche camicia da stirare, quanto piuttosto perché pensava fosse una cosa buona per lui.
«Per la tua salute» diceva. In realtà, sapendo che un giorno si sarebbero comunque separati, si preoccupava di non lasciare la casa vuota, piena solo delle boccate dei suoi sigari toscani, che trovava sgradevoli, almeno quanto le pedate di fango sul pavimento in parquet.
Per questo non gradiva le presenze estemporanee, spesso di donne molto più giovani, che configurava genericamente come zuoccole, significando un’inconsistenza relazionale che Augusto conosceva benissimo e con abilità non spingeva mai oltre il punto di non ritorno. Qualcuna ogni tanto restava invischiata nei sentimenti e questa era una ragione in più per far uso cinico della parola, con conseguenze a volte imbarazzanti che finivano per irritare persino Rodica, o meglio “la vecchia”, come la chiamava lui. In realtà non era così vecchia, ma aveva passato con lui gli ultimi tredici anni e perciò si era creato un legame affettivo che le consentiva di sopportare persino quel nomignolo immeritato. Però anche quella che
per anni aveva rappresentato per lui la sua unica famiglia, cioè se stesso e Rodica, stava per chiudersi come parentesi. A settembre Rodica gli aveva comunicato che alla fine dell’estate successiva sarebbe tornata in Romania.
Gli anni e i contributi maturati in Italia le avrebbero consentito di andare in pensione e tornare a casa con la sua famiglia.
Augusto aveva finto di non essere dispiaciuto per la decisione. In realtà sapeva che gli sarebbe mancata, inoltre difficilmente avrebbe consentito a un’altra persona di rovistare tra le sue cose e di toccare direttamente il suo mondo. Quel rapporto di lavoro e di amicizia funzionava perché Rodica aveva capito quello che poche donne avevano intuito e cioè che Augusto non aveva un mondo proprio nel quale vivere, ma uno spazio sconfinato nel quale cercare il mondo. E i confini di questo spazio sconfinato non andavano valicati o da infinito lo spazio si sarebbe contratto su se stesso, chiudendo ogni possibilità di penetrazione. Proprio come fanno i ricci quando vengono toccati da una mano estranea, che una volta chiusi a
palla, quello che resta visibile e tangibile di loro, punge.
Dunque, la vita di Augusto era, come diceva lui: «La somma degli errori accumulati». Non specificando se tra gli errori annoverasse anche le sue scelte professionali, che dall’esterno apparivano in effetti tutt’altro.
Trasmettere agli studenti le sue conoscenze gli piaceva assai più della libera professione che pure esercitava con successo. Questa, in realtà, sotto il profilo economico gli permetteva una vita tranquilla e la possibilità di sostenere molto più di quello che desiderasse e che spesso si riduceva veramente alle cose essenziali.
Gli anni non lo avevano toccato più di tanto nel fisico.
Augusto poteva concedersi assai di più di quello che si consentivano i suoi coetanei. Come salire in montagna per ritrovare i chiodi fissati sulla parete quando era ancora un ragazzo che sfidava la morte, oppure frequentare i poligoni di mezzo mondo con la sua Tanfoglio, in una disciplina nella quale conta essere veloci e concentrati, prima ancora della precisione.
***
Augusto anche quella mattina, come tante altre della sua vita, si svegliò tra le cinque e le sei, al primo chiarore della luce che traspariva tra le fessure della tapparella. Diede uno sguardo alla massa di capelli sul cuscino di lato al suo e capì che la ragazza dormiva ancora. Del resto, le persone normali, la domenica alle sei dormono, anche se questo lo lasciava parecchio perplesso, poiché non si spiegava la differenza tra sé e il resto del
mondo in materia di sonno.
Spostò i lembi del piumone, cercando con la mano i boxer rimasti tra le lenzuola, e uscì dalla stanza per andare in bagno. Passando diede un’occhiata alla maledetta scala che aveva tentato di ucciderlo. Aveva sempre pensato dall’inizio, da quando aveva comprato quella casa, che i suoi giorni sarebbero finiti, prima o poi su quei gradini che considerava osceni.
Esattamente un anno prima, su quella scala, aveva rischiato di morire.
Brutte fratture e lunghi giorni in ospedale. Lui in quell’occasione aveva realizzato un paio di cose circa la sua situazione: la sostanziale solitudine
nella quale viveva e che, nel bisogno, gli amici veri si selezionano da soli.
Fosse capitato in un fine settimana qualsiasi, sarebbe rimasto su quel muretto a contorcersi dal dolore, probabilmente incapace di arrivare a un telefono. Invece la cosa era successa durante una normale notte di un giorno lavorativo e la presenza in casa di Rodica gli aveva probabilmente salvato la vita.
Raggiunse il bagno e prestò molta attenzione ai rumori imbarazzanti che normalmente si producono in quei frangenti. Poi aprì l’armadietto e tirò fuori il suo rasoio e la schiuma da barba. Mentre si radeva, come ogni santo giorno della sua vita, i suoi pensieri si contorcevano sempre sulla stessa domanda a cui sapeva che non avrebbe dato risposta: «Ma che cazzo sto facendo?».
La verità è che nel suo fisico da quarantenne viveva un uomo con un decennio in più. E i suoi capelli brizzolati, che avevano aperto mille porte, parlavano a lui di una cosa diversa.
La ragazza nel suo letto aveva forse vent’anni in meno di lui. Una di quelle porte aperte per caso. Un rincontro dopo qualche anno dalla tesi.
Le solite frasi di circostanza, qualche appuntamento per parlare di lavoro e poi, come sempre succedeva in quei casi, dal tavolo di lavoro si passava a quello di un ristorante e da questo al letto per finire sul divano della casa al mare. La verità è che a parte la condivisione erotica di certi momenti, al risveglio, le distanze tra due mondi distinti, si riaprivano come le acque del mare al passaggio di Mosè con tutta la truppa.
Si vestì nell’antibagno per non svegliare Agnes e scese al piano inferiore per prepararsi il caffè. Augusto non aveva ceduto alla moda delle cialde, delle capsule e degli attrezzi infernali che riproducevano il caffè del bar senza averne il gusto. Per lui il caffè era quello della moka. Caricò la polvere nel filtro, avvitò la macchinetta e accese il gas. Questo gesto si accompagnava con la tranciatura a metà di un sigaro toscano che poi avrebbe fumato in due round: metà in giardino subito dopo il caffè e metà dieci minuti dopo aver gettato il primo mozzicone. Aprì la tapparella sopra al lavello e diede un’occhiata al cielo. In realtà non gliene fregava una mazza delle nuvole o del sole. Stava pensando al modo e ai mezzi con i quali accompagnare il prima possibile Agnes da sua sorella. La sua presenza, che ipocritamente non aveva disdegnato tra le lenzuola, costituiva un’intrusione inattesa dalla quale sentiva il bisogno di liberarsi. Il rumore che proveniva dal bagno del piano terra significava invece una cosa sola: che Rodica non era andata da suo figlio a fare la nonna e che avrebbe dovuto di conseguenza affrontare le solite menate sulla sua dissolutezza morale.
E infatti Rodica entrò in cucina incurante di indossare il suo pigiama di flanella con i pupazzetti a forma di orso e senza salutarlo andò diretta verso il pensile dei biscotti. Tirò fuori una scatola di gocciole – finte perché comprava quelle di imitazione all’Eurospin –, ne cavò un paio che mise in bocca e lasciò la scatola sul tavolo della cucina, davanti ad Augusto che la guardava aspettando la prima parola.
«Ebbene…? Manco si dice buongiorno?»
Rodica gli diede un rapido sguardo con i suoi minuscoli occhi cerulei.
Uno di quegli sguardi che di fatto significano: “neanche dovresti chiedermelo perché non ti saluto”.
Lavò senza una parola i due piatti piani nel lavello dalla sera precedente. Poi tirò la moka dal piano cottura e versò il caffè in due tazze. Ad Augusto diede quella senza zucchero, poi ne versò un paio di cucchiaini nella sua tazza e finalmente proferì la prima parola.
«A me non interessa quello che fai la notte, ma quello che fai di te mi interessa eccome. Continua pure così. Tra dieci… che dico… cinque anni, queste zuoccole non ti guarderanno neanche di traverso. Rimarrai da solo a lavarti il tuo unico piatto la domenica mattina.»
Augusto sorrise come faceva sempre quando sentiva la stessa identica frase e poggiò la tazza sul piattino marrone, orribile come lo erano le sue tazze da caffè che non avrebbe cambiato per nessuna ragione al mondo.
«Dicevi la stessa cosa anche cinque anni fa, vecchia.»
«Vecchia, lo dici a tua sorella e poi lo sai anche tu che è vero. Guardati bene quando ti fai la barba. Cinque anni fa non avevi tutti i capelli grigi e ora puoi contare quelli neri. E poi dimmi, che hai cambiato da allora nella tua vita?»
«L’unica cosa che avrei dovuto cambiare è te e mi pento di non averlo fatto.»
La frase non fece alcun effetto su Rodica, dal momento che era abituata a sentirla almeno dieci volte al giorno. Sapeva che in realtà significava l’esatto contrario e a modo suo ne era orgogliosa.
«Ma tu non dovevi andare a casa di tuo figlio? Guarda che è domenica oggi.»
«Non sono cazzi tuoi perché non sono andata.»
«Oh, Rodi’… ma stamattina sei più acida di una conserva di kiwi… sta’ bona!»
Rodica borbottò qualcosa in rumeno che aveva tutta l’aria di un vaffanculo e continuò a mettere a posto le stoviglie, avendo cura di fare il massimo rumore possibile. Augusto prese il suo mezzo sigaro e uscì in giardino a fumare. Sapeva che non avrebbe sortito alcun effetto la richiesta di non sbattere i piatti come Max Weinberg sbatte quelli della sua batteria. Quindi
rinunciò. Gli piaceva fumare seduto sul divano della veranda. Ci aveva fatto mille progetti e trovato mille soluzioni su quel divano. Qualche volta ci aveva anche pianto. Ripensò alla sera prima; alla telefonata di Agnes che gli annunciava di essere quasi al cancello di casa. Non lo aveva programmato e la cosa lo aveva irritato non poco.
«Ma come al cancello?»
«Ho detto a Gianmarco che sarei andata a dormire da mia sorella… tanto sarei rimasta comunque sola e non mi va di andare con gli altri.»
«Agnes, ne abbiamo parlato decine di volte. Sta’ cosa non va bene… non va bene neanche che mi avvisi dieci minuti prima di venire a casa mia… non va bene proprio.»
«Cioè mi stai dicendo che non mi fai entrare?»
«Ti sto dicendo che forse non sono stato sufficientemente chiaro l’ultima volta che ci siamo sentiti.»
«Senti… non è una bella cosa e lo so. Forse non ho risolto la questione e magari neanche la risolvo in due giorni. Ho messo in conto anche che non avresti aperto la porta o che non ti avrei trovato solo. Però questo vuol dire qualcosa, non trovi?»
Augusto restò qualche secondo in silenzio, combattendo sia con l’irritazione che con la comprensione. Poi aggiunse: «Ti lascio il cancello aperto».
Agnes era entrata in casa come spesso aveva fatto: lasciando il trolley in soggiorno e disordinando qualsiasi cosa le capitasse a tiro… lui compreso.
Avevano parlato a lungo. O meglio, aveva parlato Augusto. E questa volta era stato persino più duro dell’ultima, tanto che l’aveva vista trattenere a stento le lacrime. Poi come sempre, aveva finito per abbracciarla e da lì al resto la differenza consisteva soltanto nel cibo della cena e nel colore delle lenzuola. Detestava i calzoni ripieni… specie quelli con le alici.
Quando succedeva che doveva asciugarle le lacrime, di solito la portava a cena fuori per evitare la trappola del cibo d’asporto che invece lei evidentemente adorava. Gli toccò buttare giù i calzoni e i supplì stemperando il sapore che lo nauseava, con quello degli avanzi del pranzo precedente e con l’aroma della solita bottiglia di Morellino, che non mancava mai
dal ripiano della dispensa. Se solo lei avesse saputo, quanto detestava i calzoni con le alici, avrebbe magari potuto interpretare quel sacrificio.
Dunque, si guardò bene dal mostrarsi disgustato, poiché aveva deciso di darci un taglio. Non certo perché Agnes non gli piacesse. Anzi, tutt’altro: la trovava brillante e intuitiva. Solo che non riusciva o non voleva dare una ragione di più a quel rapporto che non fosse legata al sesso. Almeno questo raccontava a se stesso la sera quando restava solo.
«Non è sana questa cosa tra noi, Agnes. Non è sana per te e lo sai. Ho venti… anzi ventidue anni più di te e oltre questo non riesco a darti. Tu hai un futuro davanti. Sarai un bravo architetto, sei in gamba, sei bella e fortunatamente sei anche capace di mettere in fila una frase collegata al cervello. Devi solo trovare una brava persona… una della tua età che non sia quel coso che ti porti dietro.» Mentre lo diceva, le passò il rotolo dello Scottex.
«Vedi, Augusto… questo rotolo… il gesto è esattamente una metafora del tuo personaggio. Vuoi fare una cosa gentile, si capisce… E poi mi passi la cosa più ruvida che hai a portata di mano. Come se un foglio di carta con il quale asciughi il sugo in terra possa svolgere la stessa funzione di un fazzoletto di carta. E così fai con me. Dici di volermi aiutare e in realtà pensi a risolvere un problema con le parole più inutili che tu possa dire. E invece è proprio delle tue parole che non so fare a meno. Io non ti ho mai chiesto niente se non qualche volta di ascoltarmi. Non me ne frega una mazza della tua posizione, dei tuoi soldi, della tua casa e di ogni menata che ti viene in mente. Alla fine, quante volte ci siamo visti? Dieci, venti? Solo che non riesco a guardare questa cosa come la vedi tu. Hai ragione. Ci sono dentro mani e piedi, ma non cacciami via stanotte, ti prego. Mi sentirei più stupida della cazzata che ho fatto.»
Se c’era una cosa che Augusto apprezzava negli altri era la capacità di lasciarlo senza parole. E questo succedeva raramente. Agnes a volte ci riusciva ed era per quello che la considerava diversa. Il punto era che lui trattava diverso e ordinario allo stesso modo. E Agnes non faceva eccezione. Finì come le altre volte che i buoni propositi di “dormire e basta” fecero la fine delle vesti di San Francesco: abbandonate per strada.
***
Quando Agnes raggiunse Augusto in veranda, era già completamente vestita. Aveva i capelli raccolti con un laccio che si confondeva con il nero della chioma e indossava il giubbino di pelle con il quale era venuta. Lui la guardò scendere i gradini del patio e dirigersi verso di lui con una tazza da tè che immaginava invece colma di caffè americano. Per uno che consuma
solo quello fatto con la moka, è un vero insulto al culto stesso della bevanda. Però aveva sempre in casa una confezione di caffè solubile. Rodica ne comprava sempre a volontà, perché le sue amiche che spesso venivano a visitarla, consumavano solo quella immane schifezza che del caffè aveva solo il nome. Ad Agnes invece il caffè americano piaceva e lui lo sapeva.
«Perché non mi hai svegliata?» chiese senza sorridere mentre si sedeva accanto a lui sulla sedia di legno della veranda.
Augusto sapeva che quella domanda aveva qualcosa di malizioso che Agnes fingeva di nascondere in un disappunto diverso, ed evitò la trappola.
Alzò il sigaro come per mostrarlo e poi disse: «Rodica non vuole che fumi in casa». Una frase buttata lì, più inutile della carta-forno se non si possiede un forno. Pensò che non era una bugia, poiché effettivamente Rodica non amava l’odore del sigaro, ma di fatto non era neanche una verità.
«A proposito di Rodica… non devo esserle molto simpatica. Le ho chiesto gentilmente dove era il caffè solubile e a malapena mi ha risposto… per non parlare del saluto…»
«È una zotica, te l’ho detto… se è per il saluto, non ha salutato neanche me stamattina.»
«Deduco che coltivi una specie di gelosia nei tuoi confronti.»
«Forse sì… ma non nel senso che tu immagini.»
Agnes lo guardò negli occhi per qualche secondo mentre portava la tazza alla bocca. Poi girò la testa verso il pesco a pochi passi dal bordo della piscina e notò che le gemme stavano cominciando ad aprirsi. «Presto sarà primavera… e…»
«E noi siamo al punto di partenza, vero?»
Il modo che aveva di anticipare le frasi la irritava. Sapeva che quando lo faceva stava troncando una discussione sul nascere e questa cosa la metteva in difficoltà. Riprendere una frase interrotta con lui era un’impresa.
Spesso si finiva per tacere. Ed era quello che voleva lui.
«Lo so cosa stai pensando… che dovrei finire il caffè, riprendere le mie cose in cinque minuti e lasciare che mi accompagni a Ponte Milvio da mia sorella. Fa parte delle cose che tenti di mettere in chiaro e che invece lasci sempre in penombra.»
Lui non rispose, si limitò a guardare le gemme del pesco che si stavano schiudendo e a gettare il mozzicone del sigaro nel prato.
«Augusto, non voglio che tu mi consideri una ragazzina, né che prenda questa cosa per un capriccio… solo che non ce la faccio a vedere in te solo il lato che mostri. Mi confondi anche tu con i tuoi comportamenti. Quando facciamo l’amore certe cose mi restano.»
Questa volta fu Augusto a mostrarsi irritato. «Agnes… cazzo… ne abbiamo parlato, non voglio riprendere il discorso. Non è possibile che una questione venga ripetuta allo sfinimento.»
«Ho chiamato un taxi, Augusto. Non agitarti… non voglio riprendere niente, ero solo venuta a salutarti. Su una cosa hai ragione: è stato un grande errore venire qui e un grande errore anche stanotte.»
«Un taxi? Per andare dove?»
In realtà immaginava che non volesse disturbare sua sorella di domenica mattina e avesse chiamato un taxi per accompagnarla a Roma a Ponte Milvio. Non certo una cosa economica per una ragazza con un lavoro ancora precario, e si pentì dei suoi modi.
«Non so con quali tempi e in che maniera, ma avremo modo di parlare ancora. Ieri sera ho provato, ma hai finito come al solito per travolgermi con le tue considerazioni, la tua visione monodirezionale delle cose e la tua incapacità di riconoscere le fragilità altrui. Avrei voluto spiegarti di come le cose che dici, quando non sei sulla difensiva, possono cambiare la vita alle persone. Mi è successo e lo sai… ho cominciato a guardare le cose con altri occhi da quando ti conosco e credo che riprogrammerò tutta la mia vita in ragione delle riflessioni alle quali mi hai costretta… può succedere agli altri di innamorarsi di te. Lo so che ti viene la pelle d’oca a sentire queste cose. Te lo leggo negli occhi, me lo hai detto, lo lasci capire. Non c’è bisogno che ti affanni a demolire questa cosa. Ero venuta per dirti molte di più, non solo questo, ma alla fine mi ritrovo sempre al punto di partenza, come dici tu. Per questo avrei voluto che mi svegliassi stamattina… non solo per fare l’amore, ma per capire se tu mi concedessi o meno l’opportunità di vincere la paura che ho nel dirti le cose che ho
bisogno di dirti. Vado a prendere la mia roba e levo il disturbo.»
Certe volte alcune convinzioni andrebbero accantonate e alcune impostazioni andrebbero ribaltate. Davanti a situazioni contingenti, bisognerebbe avere la saggezza e il buon senso di rivisitare i dogmi sui quali si basa la propria esistenza.
Non servono le giustificazioni, i timori, le paure ammantate di cinismo quando i fatti parlano per noi. Però anche ai temerari a volte manca il coraggio.
Ma può mancare il coraggio di azzerare un personaggio costruito per difesa e lasciare spazio al buon senso, appunto.
Augusto guardò Agnes rientrare in casa e una parte di lui voleva fermarla, ma non lo fece. Attese parecchio prima di vederla uscire con il suo trolley dalla porta secondaria. Si stupì nel vedere che parlottava con Rodica e che questa l’abbracciò prima che scendesse i gradini del patio.
Che la vecchia zotica abbracciasse qualcuno lo aveva messo nelle possibilità.
Certamente abbracciava i suoi figli o i nipoti, ma mai l’aveva vista abbracciare una persona quasi estranea. Ripensando alla sceneggiata del mattino la cosa gli sembrò ancora più anormale.
Ormai è andata…, pensò.
Quando accompagnò Agnes al cancello, si avvicinò al tassista e chiese l’importo della corsa.
«Da Tivoli a Ponte Milvio sono novanta euro, signore.»
Fece per cavarsi dalle tasche il portafoglio, ma Agnes gli bloccò la mano guardandolo in faccia. «Posso pagare la corsa da sola, Augusto. Lascia stare. Grazie lo stesso.»
Mentre seguiva con lo sguardo il taxi allontanarsi per le curve di Quintiliolo, si sentì finalmente uno stronzo.
***
Passò la mattinata nell’oliveto. La primavera imminente aveva dato vigore ai rami più giovani e sapeva che iniziava a essere tardi per la potatura.
Amava prendersi cura dei suoi alberi centenari. Immaginava le generazioni di contadini che si erano avvicendate a curare quei rami nodosi e contorti e si sentiva come l’anello di una catena che non doveva spezzarsi. Per questo sceglieva i rami che davano certezza di frutto e asportava i polloni che dall’albero succhiavano le energie che avrebbero impedito alle olive di maturare. La potatura dell’olivo è una pratica complessa. Non per tutti.
Lui aveva imparato a potare quegli alberi, osservando i vecchi contadini che chiamava a cottimo da gennaio a marzo. Infine, aveva finito per diventare un ottimo potatore anche perché per quella operazione è richiesto una specie di silenzio mistico nel quale le uniche forze in campo sono quelle della natura. E lui con la natura aveva un rapporto speciale.
Mentre accorciava i rami maschi infruttiferi, pensava allo sguardo di Agnes più che alle sue parole. Lo aveva trovato meno remissivo del solito, forse più deciso, eppure intriso di una sorta di paura che non voleva definire terrore per non aggravare la sua posizione già critica al cospetto di come erano andate le cose.
Per dare una giustificazione a se stesso, si rimproverava di aver fatto l’amore con lei. Lo trovava illogico in un contesto nel quale stava provando a mettere più distanza possibile tra loro. Però all’uomo che era, certe rinunce si potevano chiedere solo mettendo in conto di avere scarse possibilità di successo.
Finì per completare la potatura dei due grandi olivi sopra la rimessa degli attrezzi e verso le tredici rientrò in casa con l’idea di fare la doccia, pranzare e passare metà del pomeriggio a sonnecchiare sul divano, se e solo se, Rodica non avesse deciso di invitare le amiche in libertà, come faceva quasi sempre quando restava in casa la domenica.
Appena entrò nell’abitazione, tolse le chiavi dalla porta e le poggiò sul mobile a destra nel contenitore apposito.
Rodica doveva aver preparato qualcosa di buono, dal momento che si sentiva l’odore del rosmarino tostato che saliva dal forno.
Lasciò gli abiti da lavoro accanto alla rastrelliera dei fucili e imboccò la famosa scala del cazzo per andare a levarsi di dosso i trucioli della potatura.
«Guarda che ha chiamato una certa dottoressa Marini.»
«E chi è? Di domenica chiamano adesso? Ma scusa, dove ha chiamato, sul telefono di casa?»
«Sì, ha chiamato mentre eri in campagna e voleva parlare con te.»
«Scusa, t’impicci sempre dei cazzi che non sono i tuoi e stavolta che chiama una che non conosco di domenica, non ti sei fatta dire che vuole?»
Pensò a qualcosa inerente al lavoro, ma lo escluse per via del fatto che di domenica, sul numero di casa, effettivamente da anni non riceveva telefonate di lavoro. Chiamò immediatamente sua madre. Lo faceva sempre all’ora di pranzo la domenica. Si preoccupò che non fosse successo nulla a lei o al papà, poi entrò nella doccia senza aver sciolto la curiosità sulla telefonata.
Quando scese in soggiorno per il pranzo, Rodica aveva come sempre apparecchiato per due davanti al televisore. La sentì parlare in rumeno con qualcuno al telefono e si augurò quanto meno che le colleghe della vecchia decidessero per un orario che gli consentisse di usufruire in via esclusiva del divano del soggiorno, quanto meno per un’ora.
Mentre osservava Rodica riempire i piatti con l’arrosto e le patate, riprese il discorso della telefonata. «Insomma sta’ tizia che ha chiamato, non ti ha lasciato un numero o non ti ha detto come la rintraccio?»
«Mi ha chiesto il tuo numero di cellulare ma ho detto che non lo sapevo, come mi hai detto di fare. Mi pare che abbia detto anche che avrebbe riprovato nel pomeriggio o domani mattina e che è una cosa importante» lo disse come faceva sempre, storpiando l’italiano in quella forma di lingua mista che era del tutto comprensibile solo ad Augusto.
«Ma abbassa sta’ cazzo di televisione Rodi’… porca miseria! Sei diventata sorda? E fammi sentire una volta un telegiornale che sto’ Grande Fratello t’ho detto mille volte che non lo voglio sentire quando mangio. Ma porca paletta, lo fanno a tutte le ore?»
«Prima di tutto questo è il “live” e secondo non è tanto alto. È che sei nervoso e ti dà fastidio tutto. Lo so io perché sei nervoso… ti conosco… ti sei pentito di aver mandato via quella ragazza.»
«A Rodi’… e per favore… piuttosto fammi capire una cosa: ti ho visto che l’abbracciavi quando è andata via. Spiegami come fai a passare da “rompo tutti i piatti così se sveja” a “mo te abbraccio prima che te ne vai”?»
«Ci ho parlato con quella ragazza.»
«Tu hai parlato con lei?»
«Sì, ci ho parlato… l’ho vista che piangeva e mi ha fatto pena.»
Augusto rimase sorpreso non tanto dal sapere che Agnes era stata vista piangere dalla vecchia, quanto dal fatto che Rodica potesse provare pena per un essere umano che in partenza aveva certificato come zuoccola.
«L’avrai fatta piangere tu con i tuoi modi.»
«Lo sai benissimo perché piangeva. Questa Agnese non è una zuoccola.»
«E che ne sai tu? Per te basta che hanno una minigonna o camminano “spettoriate” che so tutte zuoccole. E poi si chiama Agnes… no Agnese.»
«È troppo giovane per te, però ti vuole bene. Lo so io… ce l’ho letto in faccia... tu hai sbagliato a farla venire qua. Non devi trattare tutte allo stesso modo».
«Ma tu guarda se io devo dare retta a te su chi mi porto a casa e perché…»
Poi cambiò argomento, voltandolo sui fiori e sul giardino, fortemente seccato da questa inaspettata solidarietà femminile. Già… perché anche se a volte lo dimenticava, Rodica alla fine era pur sempre una donna e, come tale, interprete di un linguaggio femminile non parlato, il cui accesso agli uomini è impedito per questione di geni.
Restava in sospeso la telefonata della “dottoressa Marini”.
A mente non conosceva nessuno con quel nome. Pensò se mai nella vita avesse trombato una Marini, oppure se avesse avuto a che fare con una qualsiasi persona con quel cognome per ragioni di lavoro o più probabilmente per sport. Eppure, non gli veniva nulla in mente che potesse ricollocare nel tempo o nello spazio quella persona.
Prese in considerazione persino un errore, che però escluse, quando a domanda la vecchia rispose: «No, no… ha chiesto proprio del prof. Augusto D.B. Io conosco solo a te qua dentro co sto’ nome».
***
Aveva piacere che Rodica avesse una vita sociale.
La sua casa era troppo grande per un uomo solo e una governante. Si riempiva solo per qualche festa tra amici o quando qualcuno di questi chiedeva in prestito il prato e la piscina per il compleanno di uno dei figli. Poi, refrattario com’era alle signore con il trolley, difficilmente usava la piscina per scopi diversi da quello di contemplarla, pulirla, svuotare i
filtri e pasticciare con le cialde di cloro quando dopo una pioggia la carica batterica aumentava.
Rinunciò al divano e alle trasmissioni patetiche sul calcio. In fondo non gliene fregava una mazza del calcio. Lo seguiva di striscio e solo se non aveva da correggere una tesi, leggere un libro, scopare qualche donna o finire un lavoro urgente. Però quel chiacchiericcio tutto in lingua rumena lo detestava.
«Sono in Italia da vent’anni e parlano ancora rumeno tra di loro. Poi si meravigliano se nessuno le capisce.»
***
Quando squillò il telefono di casa fu quasi una liberazione.
Alzò la cornetta e rispose dallo studiolo accanto alla camera da letto.
«Pronto.»
«Buonasera… sono la dottoressa Marini e cercavo il professor Augusto D.B.»
«Sono io, buonasera… mi hanno detto che mi ha cercato anche stamattina per una questione importante…»
«Sì, è vero… mi scuso per averla disturbata di domenica. Ho provato a chiamarla anche ieri al suo studio. Troverà la mia telefonata sulla segreteria telefonica. Poi ho capito che forse il sabato lo studio è chiuso e mi sono permessa di chiamarla a casa perché avrei urgenza di incontrarla.»
«Posso sapere di cosa si tratta?»
«Guardi, io lavoro per il ministero degli esteri, devo parlarle di persona piuttosto urgentemente.»
Augusto rimase un paio di secondi perplesso, chiedendosi cosa avesse a che fare con il ministero degli esteri.
«Capisco che la cosa la possa sconcertare professore, però le assicuro che è lei la persona che cerco, e ho necessità di un colloquio personale con lei.»
Dal tono gentile e deciso, dedusse che la sua interlocutrice aveva le idee piuttosto chiare. Tuttavia, non fece nulla per nascondere la sua diffidenza.
Del resto, la cosa aveva contorni piuttosto curiosi. Si chiedeva infatti, quale fosse un funzionario pubblico o dipendente di una pubblica amministrazione, che di domenica cercasse una persona con tanta urgenza e con un tono così fermo.
«Guardi… sinceramente non capisco, però se mi lascia un suo recapito telefonico e le sue credenziali, farò una verifica. Spero mi capirà se le appaio diffidente.»
«Ascolti, professore, il mio nome è Anna Marini, se riesce domattina può raggiungermi presso la sede del ministero. Dopo le nove. Troverà il suo accredito al punto di controllo e le spiegheranno come raggiungere la mia stanza. La prego, mi dica che può incontrarmi o dovrò venire io da lei se mi dice come e dove.»
Capì che non era una questione demandabile, qualunque fosse, e che il luogo dell’incontro lo avrebbe messo al riparo da scherzi o tentativi di truffe.
«Lei mi conferma che sono proprio io la persona che cerca?»
«Se lei è il prof. Augusto D.B., nato a Campobasso il 20 gennaio 1969.»
«Beh… sono io, questo è certo.»
«L’aspetto domani al ministero. Entri dall’ingresso dei dipendenti, troverà il badge di accredito a suo nome presso il punto di controllo. A partire dalle nove e non dopo le undici del mattino. Le sarò infinitamente grata, se verrà.»
«Chiederò a un collega una sostituzione all’Università se necessario. Alle nove sarò da lei.»
«La ringrazio per la comprensione.»
Quando Augusto chiuse il telefono restò un paio di lunghissimi minuti a fissare un punto del muro, mentre le rumene ridevano in giardino in maniera sgraziata.
Poi annotò su un foglio di carta: “Anna Marini”.
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